
C’è, esiste una sound track nelle mie opere. Mi diverte poterle rappresentare mentre nascono con il loro sottofondo musicale nelle animazioni che creo per presentarle, così come mi piace disegnare gli autori che le hanno composte.
Paolo Di Febo
Nell’intervista di oggi Paolo Di Febo, in arte Porfirio Malacoda, ci racconta il suo universo artistico, un mix tra bellezza e irriverenza, dove l’universo femminile e la musica sono rappresentati nelle loro mille sfumature.
Come è avvenuto il tuo incontro con le arti visive, qual è stato il tuo percorso artistico?
Prima di tutto, vorrei ringraziarla per questa intervista e per l’attenzione che ha dedicato ai miei lavori.

Direi che non c’è stato un momento o un evento in particolare che mi ha fatto avvicinare alle arti visive. Il nostro più che un incontro è stato un percorso, ci sono sempre stati i disegni nella mia vita. Difficilmente sentirà un bambino dire: “da grande voglio fare il pittore”, più facilmente vedrà bambini con un’attitudine naturale verso il disegno. All’inizio è un gioco, poi diventa un piacere, più tardi una necessità.
Ho studiato allo IED (istituto Europeo di Design) di Roma, mi sono laureato in Arti grafiche e Comunicazione. Lo studio mi è stato utile più in campo lavorativo che in quello artistico. Mi considero un autodidatta. L’arte non è uno strumento e neanche una materia scolastica ma è un mezzo di comunicazione adatto a rappresentare la personalità, i sentimenti, lo stile, la visione e l’assetto mentale dell’autore. Quando senti qualcosa dentro non è facile spiegarlo fuori. Questo credo sia il leitmotiv di ogni artista o di ogni essere umano che passi gran parte del suo tempo scrivendo, disegnando o componendo musica. L’arte ci aiuta ad esprimerci senza parole, è come il sesso: non si fa chiacchierando, non trova?
Ti presenti al pubblico con il nome di Porfirio Malacoda. Come è nato?
Per il nome mi sono ispirato alle Isagoge di Porfirio, teologo e filosofo greco. Il cognome invece ci porta dritti nell’inferno Dantesco. Malacoda è il capo dei diavoli schernitori, bugiardi e beffardi da cui guardarsi bene.
Un bel contrasto. Ma vede, il chiaroscuro è alla base di ogni cosa, non solo nelle rappresentazioni grafiche ma in tutto: Eros e Thanatos nel mito greco sono rappresentati sempre insieme.
Mi piace giocare con la luce, soffermarmi per ore a ricercare il pallore di un volto o la luce su una ciocca di capelli. Ma ogni tanto mi ricordo di portare a passeggio il mio lato oscuro e di dare da mangiare al mio “demone”: disegno in pochi secondi scene di sesso e le descrivo con un linguaggio diretto, eccessivo e divertito. “There’s a devil waiting outside your door” Nic Cave & the Bad Seeds… si ricorda?


Molte delle tue opere sono dedicate a figure femminili o a icone della musica. Come definiresti il tuo stile? Che cosa ti porta a prediligere il ritratto e la figura umana?
L’universo femminile e la musica sono le cose a cui sono più interessato in questo mondo. Anche se sono uno di poche parole, potrei parlarne per un bel po’ ma cercherò di essere sintetico:
la figura femminile è semplicemente quanto di più bello si possa disegnare. Il desiderio, la sensualità, la purezza ma anche l’indecenza, tutto è incarnato con grazia nelle forme e nei gesti di una donna. La stessa donna con gli stessi occhi è capace di guardarti in mille modi diversi finchè sei l’oggetto del suo interesse. I veri oggetti siamo noi nei loro occhi e non loro nei nostri desideri. Disegnare un volto di donna è una sfida a racchiudere tutto questo su un foglio di carta. E’ lo stesso quando disegni un’icona (non a caso parola al femminile) della musica.
La musica è sempre in sottofondo mentre disegno. C’è, esiste una sound track nelle mie opere. Mi diverte poterle rappresentare mentre nascono con il loro sottofondo musicale nelle animazioni che creo per presentarle, così come mi piace disegnare gli autori che le hanno composte. Non prediligo uno stile musicale, mi piace la buona musica, così come non c’è uno stile che potrei definire “mio”. Sarà che non mi piacciono le gabbie e le definizioni. Non c’è una ricerca di uno stile nelle mie opere, in realtà non ho proprio un fine. La chiave di lettura è la provocazione, la provocazione ti obbliga a guardare un punto che non avresti osservato. Sorpresa, rabbia, disgusto, gioia, paura, risentimento, cosa importa? Basta che provochi un movimento… “altrimenti non è arte è arredamento”.
Per la tecnica prediligo l’acquerello la sua delicatezza e accuratezza, ma ultimamente mi diverto anche con il digitale. Sono due cose completamente diverse: la prima richiede tempo, concentrazione e precisione è una sorta di meditazione dove raggiungo quel delizioso stato di flow che annienta il tempo e la gravità in ogni sua accezione. Con il digitale è tutto più veloce, come d’altronde tutto lo è oggi.


Abbiamo notato che con i tuoi ritratti riesci a cogliere i musicisti nel loro massimo splendore nell’arco della vita o comunque in una rappresentazione molto iconica. Qual è la tua concezione di arte e musica?
Alcuni musicisti sono delle vere e proprie icone: rappresentazioni simboliche di idee, valori, sogni e perché no, anche fallimenti. Penso ad Amy Whinehouse a Kurt Cobain, Jim Morrison… sono gli antieroi per eccellenza ma non sono dei perdenti, hanno vinto la battaglia più importante, quella con la morte.
Ecco, la morte, e qui rispondo volentieri alla seconda parte della tua domanda: Qual è la concezione di arte e musica: sono forme di arte e ciò che le unisce è che hanno il potere di eludere lo scorrere del tempo, lo ingannano o forse, non lo concepiscono proprio. Gli artisti sono anime tormentate, non ricercano la felicità non ci pensano proprio. Il loro pensiero somiglia più a un: e adesso che cosa ci faccio con tutta questa tristezza? Da dove la faccio uscire?
L’arte è una urgenza regolatoria, tenso riduttiva è plasma che esce da una ferita. Kurt Cobain, che prima di essere un musicista era un disegnatore, in quanto alla scelta del nome per il suo gruppo dirà: “Nirvana significa liberazione dal dolore, dalla sofferenza e dal mondo esterno e questo si avvicina al mio concetto di punk”. E concluse così la sua ultima lettera:
“Ricordate, è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente”.
Hai pubblicato un bellissimo ritratto di Andrew Fletcher a poche ore dalla sua scomparsa. Che cosa ha rappresentato per te questo musicista?

Grazie per i complimenti, lei è troppo gentile.
Come le dicevo, la musica è sempre stata una compagna di viaggio, una presenza costante. Fin dall’inizio sono stato ispirato dalla scena postpunk degli anni 80. Gli anni 80 sono stati anni magici, tutto sembrava possibile, persino il futuro.
I Depeche Mode erano i massimi esponenti di quel periodo. Le sonorità sensuali e psichedeliche dei DM sono state la colonna sonora della prima fase della mia adolescenza. Martin Gore era il genio, Dave Gahan la puttana e Andy l’ingegnere, il razionale del gruppo, quello che ai concerti era immobile dietro le tastiere ma che al momento giusto ti strappava un applauso. In quella fase di vita dove tutto diventa una lotta contro tutto e neanche il tuo corpo sembra assomigliarti più, la musica diventa l’amico che ti comprende e allevia la tua solitudine senza farti troppe domande; Andy era la figura fraterna su cui appoggiarsi. Per questo sotto il ritratto di Andy Fletch ho scritto: “Ciao amico mio”, ero sincero.
Su cosa stai lavorando adesso?
Sarò breve: francamente non lo so.
Grazie mille.
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